Articolo pubblicato sul Dossier Famiglia del Centro Famiglia S. Anna (Pistoia), anno XII – N. 2 (Dicembre 2013)
Lei è appena uscita di casa, è da sola, nella penombra. Lui e là, nascosto dietro al muro, che la osserva, la brama, la desidera. E' pronto ad uscire all'improvviso, a coglierla di sorpresa.
Passo dopo passo, nell'ombra, lei procede, disarmata e impaurita da tutto quello che le sta capitando, dalla paura di essere ancora una volta vittima, ma non può proprio fare a meno di andare ad aspettare i bambini alla fermata dell'autobus, nonostante la paura che ancora una volta scopra quanto sia in pericolo la sua vita. Ed è proprio nel momento in cui sta per girare l'angolo che si accorge di non esser sola, non sa come ma lo sa, un brivido lungo la schiena, segnale ancestrale purtroppo divenuto quotidiano, e la paura diventa freddo e caldo contemporaneamente, sudore, tensione, paura di svenire.
Solamente due passi, gli ultimi due, la separano da quello che l'attende, mentre l'autobus inizia a comparire in lontananza.
La testa gira, «devo resistere, lo devo ai miei figli, a me stessa, alla vita, non devo cedere, non devo svenire», ma chissà se vincerà questa sera, in questo assurdo ring che si prospetta tra un passo ancora, ancora una volta.
Cosa sperimentiamo nel ritrovarsi a leggere questa invenzione narrativa, perlopiù inattesa? Spesso riusciamo a sentire le emozioni dei personaggi rappresentati, e almeno per qualche istante affinando il nostro orecchio interiore possiamo percepire delle assonanze, e sperimentare quindi un po' di ansia, un po' di angoscia, proprio come la donna di questo breve racconto. Oppure, caso più raro, potremmo ritrovarci con le emozioni dello stalker, senza per forza doversi proclamare con terrore a lui simili. Se ciò avviene – e sempre accade – è perché il nostro essere animali relazionali si fonda sull'empatia.
Empatia è un termine estremamente significativo e importante. Derivante dal greco empatéia, significa sentire dentro, ovvero la possibilità di comprendere lo stato d'animo altrui attraverso un "sentire condiviso". So come stai perché un po', in questo momento, lo fai sentire anche a me.
L'empatia è esperienza fondante per l'esistenza, sin dai primi giorni di nascita.
Si dimostra di conoscere bene questo concetto – forse in modo poco consapevole – quando ad un carcerato la maggior punizione che infliggiamo è l'isolamento e niente di diverso, ovverosia la negazione della relazione e quindi in gran parte proprio dell'empatia.
Si dimostra invece di conoscere un po' meno bene questo concetto quando dando uno sciroppo dal sapore terribile ad un bambino pretendiamo di ingannarlo dicendogli che è veramente buono, ma al contempo serriamo la bocca proprio come faremmo al posto suo. E il bambino, che oramai sappiamo in grado di empatizzare sin dalla tenera età, sa così che è ripugnante ancor prima di assaggiarlo per la prima volta.
Se vedo qualcuno che soffre un po' soffrirò pure io. Se vedo qualcuno che si ferisce mentre taglia il pane pure io sarò tentato di sottrarre la mano all'attrezzo malefico.
Non possiamo prescindere dal provare ciò che prova l'altro. Io ti capisco nel momento in cui provo parte di ciò che provi te (e riesco a comprendere che sono emozioni da te generate e non spontaneamente mie).
Concentrandoci sul concetto di empatia possiamo rintracciare la possibilità che abbiamo del provare ciò che prova un'altra persona. Questo aumenta con l'aumentare delle emozioni espresse dall'altro; e quindi più l'altro è in difficoltà più sperimenterò emozioni e stati d'animo di riflesso a mia volta.
Con grande probabilità è proprio l'empatia che spesso ci frena dal mettere l'altro in situazioni angoscianti, ovverosia il fatto che – sadismo escluso – far sperimentare tali stati all'altro alla fine porti pure noi a viverne una parte a livello empatico.
La scena narrata in apertura però esiste nella realtà ed è sempre più comune nei nostri mass media. Viene etichettata come stalking, un termine inglese utilizzato per descrivere la serie di azioni promosse nella caccia appostandosi in attesa della preda. E, tutto sommato, se modificassimo leggermente tale scena e ponessimo al posto della donna un cerbiatto e al posto dell'uomo un cacciatore (sempre un uomo, ebbene sì) di poco dovrebbe cambiare il racconto per mantenerne la coerenza. Stessa cosa dicasi per gli altri animali, anche i leoni stalkerizzano le zebre prima di sbranarle, ma qua le cose sono ben diverse.
Seguendo il discorso sopra aperto sull'empatia risulta difficile pensare a come una persona possa porsi nei panni dello stalker senza vivere al contempo il dramma dello stalkerizzato e quindi porre fine al suo comportamento lesivo proprio perché riesce a sentire la sofferenza che sta provocando.
Su questa riflessione propongo di provare ad ipotizzare che uno dei modi possibili per superare la contraddizione è che per lo stalker l'altro perda lo status di soggetto per diventare oggetto. Soffro se mio figlio soffre, soffro se il mio partner soffre, soffro se il mio cane o il mio gatto soffre, ma il mio soprammobile tanto amato non soffre. Mi può far soffrire se si rompe il mio soprammobile, ma non sarà sicuramente la sua sofferenza quella che io sento, perché – lo ripeto a scanso di equivoci – un soprammobile non soffre. O almeno non dovrebbe, in base a ciò che conosciamo. Posso provare a far soffrire il mio soprammobile, ma difficilmente i miei neuroni specchio risuoneranno con la sofferenza a lui inferta (se a qualcuno accade non è una cosa da prender proprio alla leggera). La sofferenza che provo se il mio soprammobile si rompe è la mia, non quella del soprammobile.
Quindi, a differenza del pensiero comune potremmo ipotizzare che non è il piano di realtà in toto ad andare in frantumi nello stalker ma solamente la collocazione mentale della vittima, che da soggetto diventa oggetto, permettendogli così di autorizzarsi proprio nel suo essere stalker. E' più facile perdonarsi se si vuol fare del male ad un vaso di fiori che ad un altro essere umano.
Pensando al rapporto di uno stalker con la sua vittima in tali termini può divenire più semplice comprendere come si possa perseguitare l'altro senza soffrire per la sua sofferenza.
La domanda che deve trovare ancora un accenno di risposta (una forse tra le tante possibili) è perché una persona deve diventare stalker. L'espressione "dover diventare" non è utilizzata con leggerezza ma bensì a sottolineare l'immensa fatica e dispendio di risorse che deve sostenere lo stalker nell'essere tale. Vivendo anche lo stalker come ogni essere vivente sotto un principio omeostatico, se ciò viene fatto deve esserci sicuramente una qualche forma di guadagno da comprendere.
Ponendo la questione in tali termini possiamo provare ad ipotizzare che più lo sforzo verso un'azione (qualsiasi questa sia) è intenso più la mente investe risorse che altrimenti potevano essere destinate ad altro. Certo male si comprende come uno stalker possa preferire vivere in tale ruolo piuttosto che impegnare le sue energie per godersi una partita di calcio od altro, ma forse si capisce un po' meglio se ci poniamo nella condizione di pensare ad uno stalker che mentre si impegna in questa caccia tra umani non ha spazio mentale per pensare ad indicibili sofferenze di una vita.
E' proprio questa riflessione che porta il mio pensiero ad assimilare lo stalker al giocatore d'azzardo, alla persona dipendente da Internet, ai dipendenti da videogiochi, a chi soffre di una sindrome da acquisti compulsivi, ovverosia a quelle che in linguaggio tecnico vengono definite nuove dipendenze patologiche o dipendenze senza sostanza, per distinguerle dalle dipendenze da sostanze, vecchie ma purtroppo ancora giovani e dure a morire.
Prendendo come esempio lo shopping compulsivo, nel momento in cui io voglio quella borsa, e ci penso tutto il giorno, continuamente, non avrò possibilità per pensare alla mia depressione, alla mia drammatica esperienza infantile, o ad altro di così doloroso. Il sintomo diviene assimilabile a ciò che in psicoanalisi è definita formazione di compromesso, un modo per vivere sicuramente faticoso ma non quanto lo sarebbe se dovessimo fare i conti quotidianamente con ciò che l'ossessione per la borsa allontana. La mente non può pensare a troppe cose insieme. La mente quindi non si ammala ma bensì si cura, a modo suo e con le proprie risorse.
E forse, noi non stalkers (o almeno spero) possiamo provare ad empatizzare almeno un minimo con loro, pensando a quale tragedia personale porti avanti quotidianamente pure la controparte vittimizzante e a quanto nelle nostre dipendenze di varia forma (difficile non averne, almeno in minima parte) in realtà si possa essere tutti un po' simili.
Spostando lo sguardo dal sintomo come problema (lo stalking) al sintomo come copertura del malessere (la sofferenza del soggetto che stalkerizza) diviene più facile comprendere i vari insuccessi ai quali possono andare incontro i tentativi di "cura" che si fondano proprio sul sintomo. Se nella sala di comando di una centrale nucleare si accende una minacciosa spia rossa di allarme generale forse è bene che il tecnico incaricato si chieda quale sia il problema da risolvere, per l'appunto la causa che ha fatto accendere la preziosissima spia, invece di eliminare semplicemente la lampadina rossa tanto disturbante. Allo stesso modo se una persona (perché lo stalker è sempre una persona, non ce lo dimentichiamo) mette in atto un comportamento quale questo in esame sarà bene aiutarlo nella sofferenza più profonda, se davvero vogliamo aiutarlo. E' alla luce di tale riflessione che la psicoterapia può diventare la vera risorsa, ovvero esperienza empatica per eccellenza che permetta di ritrovare e dare nuovo senso a parti fondanti della vita quali la relazione e l'empatia.
Ma lo stalking è un fenomeno recente o meno? Certo il dilagare dei vari social media e derivati (Facebook in primis) se da una parte ha permesso a chiunque di crearsi il suo piccolo Grande Fratello (moderno e non orwelliano, intendo) dall'altra le comuni star del nuovo, piccolo e personale palcoscenico virtuale dovranno sopportare anche gli scomodi accessori quali lo stalking, una volta destinati soprattutto alle attrici, cantanti, politici e sportivi famosi.
Ma al contempo dobbiamo anche dirci che se domani mattina leggessimo sull'automobile del vicino, marcato con una impietosa bomboletta di rossa vernice spray «Io non sono un nemico, è per amore che ti inseguo» prima di pensare ad un poetico stalker dei nostri giorni dovremmo fare lo sforzo di ricordare che è ciò che disse Apollo a Dafne, almeno secondo quanto tramandato da Ovidio qualche migliaio di anni fa. E quindi anche lo stalking, come tanti altri fenomeni umani, non nasce con i nostri tempi ma forse appartiene all'uomo, che qualche volta trasforma l'altro in oggetto proprio come accadde alla povera Dafne, alla fine trasformata in pianta d'alloro.